Bruxelles, 10.10.2024 italiaoggi - In questi ultimi anni sta crescendo la consapevolezza della crisi ecologica che stiamo vivendo. La questione climatica è ormai un tema all’ordine del giorno di molte scuole di pensiero ove persino il capitalismo sta cercando di cambiare pelle senza perdere guadagni addirittura accedendo ad ulteriori forme accattivanti di green economy riservate peraltro non a loro ma a coloro che non hanno inquinato in passato. Ma tutto ciò non risolverà il problema perché viviamo in un sistema economico capitalistico basato sullo sfruttamento, su una crescita infinita, su una ricerca continua del profitto, sul dominio della natura e delle altre specie. Pensare di poter risolvere la crisi ecologica globale attraverso riforme parziali del sistema o cambiamenti comportamentali individuali è quantomeno ingenuo.
La confusione viene creata dalla disinformazione mediatica e dalle politiche distratte che una volta entrate nelle stanze dei bottoni dimenticano le promesse fatte ai propri concittadini e senza volere si ritrovano coinvolte a promuovere proprio tutte quelle dinamiche che un attimo prima volevano cambiare per migliorare il mondo.
Murray Bookchin, che ha speso la vita opponendosi allo spirito rapace del capitalismo del “crescere o morire”, convintamente elabora il concetto che oramai l’unica soluzione possibile al disastro ecologico è la trasformazione radicale della società contemporanea in senso libertario, eliminando il dominio di un essere umano sull’altro e cancellando il principio stesso della dominazione. La questione ecologica è quindi inscindibile dalla questione sociale, e volere è potere…per cui se non si può è solo perché non si vuole.
Francesco Manfredi, l’economista dall’Università Lum di Bari, esordisce: « La verità è che l’Unione europea non ha i fondi necessari per finanziare il Green Deal e tantomeno per far fronte agli effetti socio-economici negativi che produce per lavoratori, famiglie, imprese. Bruxelles dovrà cambiare passo». Sulla sostenibilità della rivoluzione ecologica ormai i dubbi non sono solo del mondo delle imprese ma anche di quella sinistra, esemplare il caso della Germania, che fino a poco fa se ne è fatta paladina imponendo modalità e tempi draconiani per la sterzata green, dalle auto alle case. Ma quanto impatta l’Europa sulla riduzione delle emissioni? «Cito dei dati», risponde Manfredi, «nei primi 50 Paesi più inquinati del mondo non ce n’è nessuno europeo e l’intera Unione europea è responsabile soltanto del 7,3% delle emissioni globali di CO2. Nel 2023 Cina e India, che non hanno politiche per la protezione dell’ambiente, hanno avuto una crescita tendenziale dell’inquinamento rispettivamente del 4% e dell’8%, e il 7% dei Paesi europei non ha permesso neppure di compensare quelle crescite».
Dopo il ministro dell’economia tedesco, il verde Robert Habeck, anche la candidata alle presidenziali Usa Kamala Harris ha annunciato un ridimensionamento degli obiettivi green. I democratici e in genere la sinistra stanno cambiando idea?
La Harris sta inseguendo Donald Trump sui temi chiave della campagna elettorale per le presidenziali, mi sembrano quindi dichiarazioni poco affidabili. Sono molto più interessanti le posizioni che quasi quotidianamente stanno prendendo imprenditori, manager, esperti dei vari settori. Solo per restare in Italia, negli ultimi giorni si sono registrati gli interventi del presidente di Confindustria Emanuele Orsini, di Marco Tronchetti Provera (Pirelli), Claudio Descalzi (Eni), Massimo Artusi (Federauto), che hanno bollato con parole più o meno dure, ma molto chiare, le scelte europee sul green.
Un manager come Chicco Testa, non certo insensibile verso le tematiche socio-ambientali, ha testualmente detto che «il piano di Von der Leyen è irrealizzabile».
E, se posso aggiungere, in modo provocatorio, direi anche scarsamente utile.
In che senso scarsamente utile? Non avrà una posizione negazionista?
È innegabile che il clima stia cambiando e che dovremo adattare i nostri sistemi e il nostro stile di vita, forse più per una ragione etica che per una opportunistica; sarebbe peraltro interessante capire, uscendo dalle battaglie ideologiche in corso, quanto questo è causa dell’azione dell’uomo e quanto dei naturali cicli climatici che migliaia di esperti di tutto il mondo indicano come fenomeni sempre avvenuti nella lunga storia del pianeta. Io non entro in questo dibattito, mi fermo a numeri che parlano chiaro.
E quali sono i numeri?
Nei primi 50 Paesi più inquinati del mondo non ce n’è nessuno europeo, nei primi 60 c’è solo la Grecia; tra i primi 10 Paesi più inquinanti al mondo l’unico europeo è la Germania, mentre l’intera Unione europea è responsabile soltanto del 7,3% delle emissioni globali di CO2. Non serve essere un fine analista o un esperto economista per capire che, se anche noi europei smettessimo di produrre, rinchiudendoci nelle caverne e cibandoci di bacche perché zootecnia e agricoltura inquinano, nel 2050 la situazione del pianeta non sarebbe granché migliorata; anzi, paradossalmente, rischierebbe di essere peggiorata, perché più spostiamo le produzioni verso quei Paesi che hanno poche o nulle attenzioni e regole per la tutela dell’ambiente, più cresce l’inquinamento globale. Infatti, nel 2023 Cina e India hanno avuto una crescita tendenziale dell’inquinamento rispettivamente del 4% e dell’8%, e il -7% dei Paesi europei non ha permesso neppure di compensare quelle crescite.
Quindi, non resta nulla da fare?
Al contrario, restano da fare tante cose intelligenti che come tali hanno un portato di complessità ma prescindono dall’ideologia. Si può continuare sulla strada delle energie rinnovabili, trovando un equilibrio con la sostenibilità economica e territoriale; riempire di fotovoltaico i campi che servono per produrre alimenti o impiantare le 3800 pale eoliche che servirebbero per far funzionare l’acciaieria di Duisburg sono cose che non si possono fare, si possono invece sviluppare gli small modular reactor per fare business e produrre energia pulita, come pensa di fare Leonardo.
Lo scontro più popolare per impatto è quello che riguarda l’auto elettrica.
Si può supportare, non obbligare, la scelta dell’auto elettrica come stile di vita ma anche come occasione di risparmio quando la si ricarica in casa con l’energia prodotta dai pannelli solari. Si può lavorare non solo sulla gestione differenziata dei rifiuti, ma anche sulla loro produzione, supportando quei processi e quegli strumenti aziendali che possono minimizzarla. Si può investire sulla rigenerazione dei contesti urbani non solo per migliorare l’efficienza energetica degli edifici, ma anche per rinaturare gli spazi pubblici e privati, per fare spazio alla mobilità sostenibile, per migliorare il trasporto pubblico, per ridisegnare la rete dei servizi di pubblico interesse e commerciali in funzione dell’autosufficienza dei quartieri e della minimizzazione degli spostamenti dei residenti. Si possono usare le tecnologie per rendere le città vivibili e sostenibili al contempo, si pensi agli strumenti di energy e building management, al cemento e all’asfalto che assorbono lo smog, all’illuminazione e alla climatizzazione smart che si attivano con il movimento.
Detta così pare fantascienza…
No, solo solo cose intelligenti, e l’elenco sarebbe davvero lungo. La cosa più intelligente di tutte sarebbe educare i cittadini alla corresponsabilità e alla co-partecipazione rispetto ai corretti stili di vita e ai coerenti processi di scelta, acquisto e consumo; solo un grande patto con le persone può permettere il raggiungimento di obiettivi duraturi. Ecco perché le imposizioni che danneggiano i cittadini sono sicuramente la scelta sbagliata.
Fa riferimento a scadenze e obblighi draconiani imposti alle imprese e ai privati?
Sì, che stanno generando, come prevedibile, un naturale effetto di rigetto, basti pensare alle manifestazioni degli agricoltori, alle proteste di interi settori, come quello dell’immobiliare o dell’automotive. E siamo solo all’inizio. Quello che dovrebbe più preoccupare i politici europei non è il dissenso verso le politiche, peraltro sbagliate, ma il fatto che questo dissenso tra non molto si rivolgerà contro il motivo giusto che ha generato quelle politiche sbagliate. E verrà meno quindi la possibilità di instaurare quel patto sociale di cui parlavo, che ha, tra l’altro, una forte dimensione etica, perché, diciamoci la verità, i sacrifici che siamo chiamati a fare non sono funzionali tanto a ottenere un vantaggio per noi quanto alle generazioni future.
Il 110% doveva andare nella direzione di un efficientamento degli edifici. È costato un buco da quasi 150 miliardi nei bilanci dello stato italiano. Nella sua prospettiva ne è valsa la pena?
Anche qui dovremmo porci delle domande sull’insieme di bonus e superbonus buttati a pioggia, senza strategie e controlli. La prima è la più semplice: ce lo potevamo permettere? La risposta è no. È servita come manovra economica anticiclica? I dati a disposizione sembrano dire di no. Ha permesso di sviluppare politiche pubbliche, come quelle di rigenerazione urbana, per aumentare il livello di sostenibilità socio-ambientale delle nostre città? No anche qui. Ha fatto da volano economico per mobilitare risorse private concorrenti nello sviluppo di strategie e azioni per il miglioramento ambientale dei sistemi antropizzati? No. Credo di aver risposto alla sua domanda.
La Von Der Leyen ha rilanciato il Green deal come obiettivo della Commissione, ma un Green deal «più equo per tutti». Anche la Commissione sta cambiando passo?
Posto che, detto così, vuol dire poco o nulla, mi sembra che la Presidente abbia finalmente fatto un primo bagno di realismo, forse anche perché i partiti più accaniti sul tema, Verdi e Socialdemocratici in primis, sono usciti sconfitti dalle ultime elezioni. A oggi gli strumenti finanziari messi in campo per sostenere la transizione, il Just Transition mechanism e il Social climate fund, hanno risorse assolutamente inadeguate. La verità è che l’UE non ha i fondi necessari per finanziare questo cambiamento epocale e tantomeno per far fronte agli effetti negativi che produce su lavoratori, famiglie e imprese. In ogni caso, la Commissione Ue dovrà cambiare passo, auspicabilmente nella direzione di trovare un più attento equilibrio tra la sostenibilità ambientale e la sostenibilità sociale ed economica.
Gli strumenti finanziari, purtroppo favoriscono le solite grandi società che oramai possono vantare solidità bancarie anche se legate a contratti coi cittadini, e quindi, molto spesso i fondi si perdono per strada oppure non vengono utilizzati, o peggio si ritrovano ad essere adoperati proprio per finanziar quelle tecnologie ritenute dannose per le comunità, o comunque si ritrovano ad alimentar un vortice di nuove dipendenze, come nel caso delle energie e materie prime.
Secondo Bookchin, il filosofo, storico ambientalista e saggista, bisogna dire basta alla furbopolitica, quella legata agli interessi dei soliti padroni del mondo che fingono di fare del bene e poi continuano a non fare niente o a fare peggio, siamo oramai nell’Era che bisogna essere coraggiosi per una liberazione di una società sempre più ecologica, oltre a una profonda trasformazione sociale sono indispensabili anche trasformazioni culturali e personali che portino allo sviluppo di nuove sensibilità e nuove forme di pensiero, in grado di interpretare le differenze non in una logica di dominio e di oppressione, ma apprezzandole e considerandole come ricchezza fondamentale per l’evoluzione sia naturale che sociale. Questa nuova sensibilità può essere raggiunta solo attraverso un lungo processo educativo, politico e imprenditoriale, sia in senso intellettuale che etico, in grado di rendere ciascun essere umano responsabile delle proprie azioni così da esercitare un’autentica cittadinanza, iniziando proprio dall’alto dei vertici delle società, così da poter agire consapevolmente in prima persona, autogestendosi ed esser di esempio…così, la Rivoluzione Ecologica diventa realistica.
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